Il territorio del Regno di Cambogia (o Kampunchea) è in gran parte costituito da regioni montuose e ricoperte di giungla; il resto, dal bassopiano alluvionale del Mekong e dei suoi affluenti.
I cambogiani sono per lo più contadini, poverissima gente che da sempre vive legata alle sue risaie e al riso deve la propria sopravvivenza ma che pure è erede di quei Khmer che dettero vita ad un impero fiorentissimo con centro ad Angkor.
Una storia gloriosa e uno tragico presente. Durante il regime dei Khmer Rossi vengono massacrati oltre 2 milioni di cambogiani e fra essi tutte le persone scolarizzate: insegnanti, tecnici, intellettuali, professionisti, burocrati. Senza contare la litigiosità e la corruzione che caratterizzano il nuovo regime post-comunista.
A parte il grande sviluppo del settore turistico, che si concentra nella capitale e ad Angkor, prosperano la prostituzione e decine di banche improvvisamente sorte per pulire i milioni di dollari sporchi del narcotraffico e delle mafie asiatiche.
Proprio Angkor è la meta del viaggio in Cambogia.
La località archeologica si trova a 314 km a nord di Phnom Penh, presso la cittadina di Siem Reap, sviluppatasi proprio in funzione turistica, con alberghi di ogni livello, ristoranti e bar, mercatini, banche e un aeroporto servito da voli giornalieri da e per la capitale (40 minuti di volo).
L’Apsara Holiday Hotel (Airport road, Krous Village) dove alloggiavo è veramente splendido e combina la tradizionale ospitalità Khmer con uno stile moderno e direi lussuoso. In hotel si può richiedere il pass rilasciato dalle autorità per poter visitare Angkor Wat. Data la notevole estensione del complesso archeologico, consiglio un pass valido 3 giorni per $ 40.
Questo capolavoro dell’arte Khmer rappresenta una pira funeraria dedicata al dio Vishnu e fu voluto dal re Surayavarman II (1112-1152). Si sviluppa all’interno di una cinta muraria quasi quadrata con un lato di 1025 m e l’altro di 800, difesa da un fossato.
L’immenso Tempio Centrale raggiunge il 55 m di altezza. È decorato con 800 metri di raffinati rilievi e statue che raffigurano gli dei del Pantheon Khmer, con Buddha, Vishnu e le splendide Apsara (le danzatrici celesti).
I pannelli illustrano le imprese raccontate dai grandi poemi epici indù e scene della vita del tempio.
Ad Angkor Tom, un circuito più piccolo, si ammira il Bayon, un grandioso tempio-montagna e uno dei monumenti più belli al mondo. È decorato da 11.000 straordinarie figure e da 172 immani volti serafici del Buddha della misericordia.
I vialetti della giungla sono continuamente liberati dalle foglie da alcuni sopravvissuti alle migliaia di bombe sotterrate degli Khmer Rossi e che ancora fanno vittime. Sono mutilati che spesso si trascinano su improvvisati carrellini ma non ti chiedono mai nulla. Alcuni suonano melodie tradizionali e ti sorridono se ti fermi ad ascoltare. Strappano il cuore perché sono giovani, a volte anche bambini, che la guerra non l’hanno neppure vista ma ne portano ancora le conseguenze. Tuttavia sono anche composti e non mendicano pietà.
Dopo un volo di circa 50 minuti si atterra a Phnom Penh, la “piccola Parigi” asiatica, brulicante di motorini e carretti stracarichi di ogni cosa.
Un notevole esempio di architettura Khmer è il complesso del Palazzo Reale, composto da diversi edifici dove domina il colore giallo brillante.
Si può entrare nel complesso ma non visitare il palazzo reale vero e proprio essendo ancora oggi residenza del sovrano.
In città si visitano la Pagoda d’Argento (o Pagoda di Smeraldo) e il Museo Nazionale che espone statue della cultura Khmer e una notevole collezione di bronzi e di oggetti di uso comune anche risalenti a periodi anteriori ad Angkor.
Una visita molto coinvolgente (e sconvolgente) dal punto di vista psicologico e che mi ha lasciato un profondo senso di angoscia e di impotenza è stata quella al Liceo Toul Sleng e ai campi di sterminio di Choeng Ek. Memoriali degli orrori del recente passato, il primo è stato trasformato dai Khmer Rossi in un macabro luogo di tortura di migliaia di avversari politici, veri o presunti. Nel secondo, appena fuori città, i “traditori” venivano massacrati a bastonate, o soffocati con sacchetti di plastica, per risparmiare pallottole.
In entrambi i luoghi, tutto è stato lasciato com’era.
La nostra guida, Kim, ci disse che non c’era in tutto il paese una sola famiglia che fosse stata risparmiata da questo genocidio. Era particolarmente coinvolto in questa visita perché lui stesso aveva perso diversi parenti e amici. Dal terreno attorno alla scuola affiorano ancora lembi di vestiario e pezzi di scheletri di coloro che vi furono sommariamente sepolti.
Nel tronco di un albero è ancora conficcato il gancio di ferro al quale molti devono la morte.
Se si esce dai classici percorsi turistici, si può constatare come la popolazione rurale viva ancora ai limiti della sussistenza. Capanne, quasi sempre a palafitta per i monsoni, bambini nudi, adulti con qualche pezzo di stoffa addosso, un carrettino e una vanga.
Davanti ad ogni capanna c’è sempre una “cassetta degli spiriti”, piccolissimo Tempio colorato vivacemente, posto a protezione degli abitanti. Ti offrono un po’ di zucchero bruno ancora caramelloso su uno stecchino e te ne impacchettano alcune zollette in una foglia di banano. I tuoi dollari sono sempre accettati con occhi bassi e un timido sorriso. C’è tanta compostezza nei gesti e tanta, tanta tristezza nello sguardo.
Poi torni al tuo immenso, modernissimo Hotel Cambodiana: “la tua casa quando sei lontano da casa” recita l’opuscolo pubblicitario. Le comodità e il lusso hanno bisogno di un po’ di tempo per prendere il sopravvento su ciò che la vita locale ti ha appena mostrato. Le due realtà convivono sullo stesso territorio ma sono lontane tra loro anni luce.
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