Presi dalla giornata non ci siamo appuntati nulla sul diario di bordo: siamo stati impegnati a vivere l’Africa ogni secondo.
Tra fare tardi e curarci il mal di gola per il troppo parlare e cantare a scuola, tra il giocare sulla terrazza con il twister portato per i bambini e il prendere il sole dopo pranzo, tra il rito del the e quello dell’immancabile succo di guayava, le ore sono trascorse dense.
Condenso in questo giorno quanto non ancora detto ma che merita di rimanere impresso nel racconto di questa esperienza di volontariato in Senegal.
In un elenco apparentemente confuso e senza ordine, riporto ricordi ricchi di vitalità, di ritmo, di colori, insomma ricchi d’Africa.
– Il frutto del mango, come non citarlo in ogni sua forma?! Dolce all’infinito, sulle nostre tavole dalla colazione alla cena, tagliato con abilità dai senegalesi e con molta meno maestria da noi. Sarebbe diventato il regalo più gradito durante la nostra trasferta a Saly e quello da portare a casa di nascosto, chè così gustoso in Italia non l’avremmo mai trovato.
– Le treccine afro e i capelli increspati. Ho ancora l’immagine di tutti quei ragazzini davanti agli occhi e dei loro capelli che, se non rasati, si presentavano fantasiosamente raccolti in mini dreadlocks, in treccine abilmente create da mani veloci, oppure increspati e ribelli. Una parte di me li avrebbe voluti così: increspati e cotonati.
– Le patatine tanto desiderate: proprio quelle nel sacchetto, unte e salatissime. Acquistate dopo un paio di settimane per dar pace alla gola e, delusissimi, ritrovate posse nonostante non fossero scadute. Questi sono spesso i prodotti occidentali venduti in Africa, senza cura nella conservazione diventano non commestibili.
– Il ballo più coinvolgente in classe con i ragazzi più grandi scatenati dopo la lezione di inglese tra Shakira e altre musiche occidentali. Li imitavamo nei loro stili di danza, ballavamo complici, gente sui banchi a battere le mani… il sangue di ognuno era intrappolato in quella situazione e vivo più che mai! Sorrisi bianchissimi i loro e occhi grandissimi i nostri. Felicità ed energia, questa è l’Africa.
– Il succo di bissap e di baobab servito dopo il pranzo. Depurativo l’uno, dolcissimo e ricostituente l’altro. Imperdibili perchè parte di un mondo che si lascia scoprire senza rémore, che è fatto di gusti nuovi oltre a tutto il resto. Gli stessi succhi, durante l’intervallo, vengono venduti ai bimbi in piccoli sacchetti di plastica congelati: ghiaccioli locali e naturalissimi.
– Il rito del the ataya. Quello che per i senegalesi era una tradizione post pranzo, ha lasciato perplessi noi occidentali per i primi giorni. Ancora chiusi nella nostra cultura non capivamo perchè mai il tempo di attesa per un chupito di the dovesse essere di una mezz’ora. E un’altra mezz’ora per il secondo e ancora per il terzo. Solo chi di noi è riuscito ad aprirsi agli usi africani, a lasciare andare ciò che siamo quassù, a essere curioso verso un rito nuovo, ne ha poi colto l’essenza e vi ha partecipato con il cuore giorno, dopo giorno. Domande per capire il senso di quell’usanza diffusa in ogni casa e addirittura in ogni vicolo ci hanno avvicinato alla storia dei nostri amici senegalesi e compagni di volontariato.
– Il caffè touba acquistato al banchetto fuori da scuola durante l’intervallo è diventato anch’esso un rito. L’inatteso aroma speziatissimo che ti entra nelle narici e il gusto deciso che colpisce il palato sono un ricordo tutt’ora chiaro.
– Le mani che ti accolgono, ti sfiorano, si intrecciano alle tue. Non percepisci invasione di campo laggiù, solo grande condivisione di emozioni e sentimenti. Una stretta, un “cinque”, uno sfioramento sono il modo di comunicare più forte che quei bambini hanno. Senza parole. Non sono nemmeno necessarie. Quel gesto è tanto ricco di affetto e considerazione che dice tutto. Ti avvicina e ti conquista e mai, proprio mai, ti capita di pensare che quell’apertura alla gente è un po’ troppo per te.
– Il lancio dell’acqua giù dalla terrazza del secondo piano. Lavavamo i piatti in plastica, i bicchieri e le pentole in un catino posto a terra, vicino all’unico rubinetto della cucina lassù in terrazza, posto a 40 cm dal pavimento in cemento. Non c’era scolo, come in ogni casa del resto, solo un parapetto a trattenerci nel più liberatorio dei gesti che abbia mai compiuto nella mia vita: il catino veniva rovesciato sulla sabbia sottostante, avvisando i passanti con un urlo “Attention svp!”. Divertentissimo per noi. Normalissimo per loro.
– Le arachidi vendute lungo la strada. Che si passi con il carrapide su strade di sabbia o sull’autostrada nuova nei pressi di Dakar, ti vengono proposte noccioline tostate o al naturale in sacchetti da pochi spiccioli. Che siano spesso bambini a offrirle non mi piace neanche un po’, però spesso un po’ di cibo salva dalla noia delle code nel traffico e dà il via all’ennesima condivisione.
– La Gazzelle e la Flag. Sono le birre senegalesi con le quali brindare di tanto in tanto: in terrazza sotto il cielo infinito di stelle, in discoteca a Dakar, alla conclusione del feu du camp, alla festa di fine campo, e ancora e ancora.
– Il Chocopain. Una dolcissima crema al cioccolato fatta con una grassissima base di burro di arachidi. Che fosse a colazione o a fine cena, era il junk food più simile alla Nutella che potessimo concederci. I barattolini? Diventavano contenitori di riciclo tra i più diffusi nella periferia di Dakar.
– Il cous-cous migliore che io abbia mai mangiato è stato cucinato per noi a scuola con verdure e spezie equilibratissime.
– Le porte aperte a casa della gente. Ti amano in un istante, ti aprono la porta della loro casa, insistono perchè tu conosca l’intera famiglia, ti offrono la colazione, il the, del pane con l’intento di condividere qualcosa con te. Tu che estraneo per loro non sei mai. Tu che capisci che per questo popolo la condivisione è vita quotidiana. Si instaura una fiducia massima e solida, una riconoscenza per il solo fatto di essere gli insegnanti estivi dei loro ragazzi, e questo approccio manca tantissimo una volta tornati e fa parte del mio mal d’Africa.
– Il mercato di Bène Baraque. I forti odori invadono pesantemente le narici. Il cibo esposto al caldo fa così strano. Le condizioni igieniche sui banchi del mercato sono al di là del precario. I vicoli interni creati dalle bancarelle fisse sono labirintici ma non troppo: impariamo subito a orientarci; ci facciamo accompagnare al banco delle stoffe e ne compriamo alcuni metri per cucirci un vestito o altro che rimanga a ricordo. I colori degli abiti delle donne senegalesi sono meravigliosi, vivi, luminosi, allegri. Ho scelto una stoffa azzurra e vorrei trasformarla in una giacca estiva da indossare qui in modo da far convivere i due mondi nella mia quotidianità, in qualche modo.
– I venerdì pomeriggio tutti i negozi (le boutiques) erano chiusi perché ore di preghiera musulmana. Non una bottiglia d’acqua fino alle 16.00, normalità.
– Il richiamo del muezzin scandiva le ore. Le scuole coraniche qui ci son state presentate come qualcosa di troppo chiuso al mondo, rigido, statico rispetto a quello che il Senegal è oggi: una nazione dove la convivenza tra religioni raggiunge la massima tolleranza.
– Le case senegalesi e i mobili in tek. Da noi costerebbero tantissimo, qui sono l’eleganza tipica e irrinunciabile delle loro case. I mobili arredano l’unica stanza di proprietà della famiglia e la adattano a essere camera da letto, soggiorno, salotto per gli ospiti, sala relax, sala tv, e così via.
– A scuola è incredibile come l’ordine venga recuperato al solo accenno di una canzone di Papa Sow. Appare strano educare per mezzo della musica eppure qui i ragazzini urlanti della scuola vengono ripresi a suon di… canzoni. Il maestro Papa Sow si è guadagnato un rispetto tale da riuscire a riportare la calma con uno sguardo oppure intonando uno dei tanti canti che insegna ai bambini alla fine della giornata di scuola. Questo trucco l’abbiamo sfruttato moltissimo anche noi volontari!
– Gli allenamenti dei ragazzi senegalesi in spiaggia al tramonto. Sport è salute, è narcisismo, è appartenenza a una nazione. Delle vere e proprie sessioni di allenamento per la lotta, per il calcio o per il benessere si svolgono ogni sera lungo le spiagge del paese della Teranga.
– Il temporale improvviso scoppiato mentre ce ne stavamo sdraiati in spiaggia e a nulla serviva ripararsi con gli asciugamani: corri e ridi, ridi e corri che intanto… si è allagata la cucina! Ormai fradici ci siamo impegnati tutti a svuotare la terrazza dall’acqua accumulata: era un bacino senza scolo!